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Braje '17 il Bordò in riva all'Enza

Fiancheggiando l'Enza d'estate se ne potrà ammirare compiutamente l'ampio alveo. A portata ridotta, a volte addirittura in secca, si potrebbe sottovalutarne il carattere peperino. Ma nelle arterie dell'Enza scorre sangue toscano, e si imbastardisce con quello emiliano lassù sull'appennino del Lagastrello: e giù a valle, rotola per olre 100 chilometri fino al Po, scherzando la Parma e sparacchiando sedimenti copiosi nelle sue piene.

È proprio qui, sulla riva dell'Enza, che John ed Eddy Storchi s'azzardano a costruire il loro bordolese, propriamente detto: due parti di Merlot, una parte di Cabernet Sauvignon, un saldo di Franc. E vanno a pescare il nome nel vocabolario dei Longobardi, che da queste parti ne fecero peggio che Borghetti, e lo chiamano Braje. Un termine Longobardo, italianizzato e dialettizzato: le braglie, "ai braj", dove quel popolo coltivava foraggio e vite.

Con tutto quel rosso, e le cento sfumature dal bordo al cuore, come un copioso spandersi di sangue venoso, il sangue dell'Enza toscano ed emiliano. Ti impressiona, la solidità di carattere, il ricordo del greto del fiume, il grembo ubertoso che genera disastri e meraviglie.
E allora l'erba e l'inchiostro, quello nero-viola dei calamai; e allora un altro mezzo centinaio di ricordi fulgidi che si susseguono, tra cui la folgorante impronta della scatola di sigari.
E il sorso, mirabile fomento di struttura e freschezza e potenza e levità.

In tavola lo chiameranno ossobuchi, paste all'uovo con sughi ovini fresche e ripiene, grandi bistecche alla brace.