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Caterina de' Medici ha gonfiato le animelle, e le nonne pure.

Caterina de' Medici ha gonfiato le animelle, e le nonne pure.

Qualche tempo fa l’amico Stefano Caffarri mi ha chiesto di descrivere quello che faccio e delle difficoltà che incontro quotidianamente, così ne approfitto per buttare giù qualche riga a ruota libera, come mi capita di rado.

Quello che faccio è molto semplice: cerco di ricostruire la storia della gastronomia italiana con l’unico metodo attendibile che conosco, ovvero attraverso le fonti storiche. Articoli di giornali, dizionari, resoconti e soprattutto tante, tantissime vecchie ricette. La ricerca fatta così presenta due ostacoli principali: il primo e più evidente è che la cucina non è mai stata considerata arte, tutt’al più alto artigianato, per cui ciò che troviamo scritto oggi è una minima parte di ciò che è passato per i fornelli. Tutto questo è aggravato dal fatto che l’alimentazione popolare non è mai stata un soggetto interessante fino alla fine dell’Ottocento, per cui la maggior parte di quello che ci rimane sono ricette e testimonianze che provengono esclusivamente dagli strati più elevati della società.

Il secondo ostacolo è che qualsiasi ricostruzione storica, per quanto ben documentata, può essere smentita dalla comparsa di un'unica fonte inedita, ma questo succede in qualsiasi ricerca, anzi è l’assunto di base di un’analisi scientifica. La sola cosa da fare per non prendere cantonate è di consultare il maggior numero di fonti possibili, altrimenti i rischi aumentano esponenzialmente. Per fare un esempio, per trovare il primo autore che parla di vitello tonnato è necessario sfogliare tutti i ricettari dal Medioevo in avanti alla ricerca di una singola ricetta che possa costituire un precedente e, una volta trovata, tutti quelli successivi per capire se e come si è evoluta la preparazione lungo i secoli. Insomma, un lavoraccio, ma fin qui è normale amministrazione. 

Non sempre, anzi quasi mai, le conclusioni della ricerca danno esiti scontati: l’amatriciana non é stata inventata nel Settecento da pastori abruzzesi, il panettone non é il “Pan de Toni”, la forma dei tortellini non é ispirata all’ombelico di Venere, ovvero tutto l'immaginario collettivo che si é costruito dal dopoguerra in poi per giustificare la presunta antichità o il radicamento di una ricetta in un determinato territorio sono semplici leggende. Belle favole, ma così profondamente sedimentate all’interno della cultura popolare da diventare certezze. Nate da una base puramente ideologica, senza alcun fondamento storico, per molti sono parte stessa dell’identità che ci lega a una celebre preparazione gastronomica. Una relazione così intima che ognuno si sente in dovere di dare la propria opinione sulle ricette della tradizione, non limitandosi a come si cucina nella sua famiglia, ma spaziando a 360 gradi. Da un lato è un bel segnale e significa che la cucina è materia viva e vitale in cui ognuno si sente parte attiva, dall’altro è estenuante perché le argomentazioni difficilmente scavalcano i luoghi comuni.

Il passo è breve alla creazione di veri e propri miti e, ad esempio, succede che Caterina de’ Medici diventa un portento in cucina che Cracco je spiccia casa. La sovrana italiana insegna ai francesi a usare la forchetta, a profumare le tovaglie damascate, a usare il tovagliolo, a cambiare i piatti tra una portata e l'altra e a dividere il servizio dolce dal salato, oltre a infinite ricette, dalla salsa colla (antenata della besciamella) alla pasta choux dei bignè, dalle “pezzole” fiorentine (ovvero le crêpe) fino al “papero al melarancio” che, ovviamente, è diventato un’anatra all’arancia. Tutte affermazioni che potrebbero essere vere, se ci fosse uno straccio di fonte a supporto.
Il meccanismo è quello della bufala o della leggenda metropolitana: un’informazione plausibile viene data per certa ed entra a gamba tesa in una narrazione storica. Normalmente ha uno scopo ben preciso: in questo caso cerca di dimostrare l’egemonia della cucina italiana a discapito di quella francese che si è unicamente intestata la paternità dei piatti.

E proprio come le bufale, il lavoro richiesto per verificarle o smentirle è enorme ed estremamente difficoltoso. In questo caso sarebbe necessario passare in rassegna qualsiasi carteggio o testimonianza relativa a Caterina de’ Medici per mettere in dubbio un legame diretto tra lei e queste invenzioni. Sia chiaro, durante il Rinascimento l'Italia ha esercitato un’influenza enorme in diversi campi, non solo quello culinario, ma è impossibile ascrivere questo ascendente a un singolo personaggio, sarebbe come dire che i francesi hanno imparato a dipingere da Leonardo Da Vinci: è un po’ più complicato di così. Le persone viaggiano, le idee pure, le ricette non sono da meno.

L’altra bestia feroce da battere è la nonna. Non la nonna in sé, di quelle non ce ne sono mai abbastanza, ma l’idea stereotipata della nonna, detentrice atavica di sapienza gastronomica  A parte il ruolo di pietra di paragone per qualsiasi portata del ristorante (dalla trattoria a Bottura è tutto un “Mia nonna lo faceva meglio”) la nonna è l’emblema della cucina statica e immutabile. I piatti che fa la nonna li ha imparati da sua nonna e li ha trasmessi a noi senza cambiare una virgola, una linea diretta con il mondo di un secolo fa, quando si andava con il tram a cavalli e il cibo aveva tutto un altro sapore. Senza mai consultare un ricettario, usando solo il proprio quadernetto ingiallito, ricreava incessantemente le stesse pietanze di sempre. Qualsiasi dimostrazione che in cucina nell’ultimo mezzo secolo è cambiato moltissimo, quasi tutto, è inutile e non supererà mai la prova della nonna. Tutt’al più i “miononnisti” (come li chiama lo chef Borsarini) ammetteranno che potevano esistere altre ricette solo perché in cucina si usava quello che c’era: da una parte ricette immutabili, dall’altra una variabilità assoluta a seconda di ciò che si aveva in dispensa. Facendo il pendolo tra una staticità di un paracarro e l’assenza completa di regole, la nonna vince sempre e travolge ogni cosa con la sua completa assenza di logica.
Impensabile anche solo tentare di mettere in dubbio tale certezza, diventa una questione personale, meglio lasciare perdere e pensare alla salute. 
 
Quindi quello che ci siamo raccontati finora sulle ricette che abbiamo più care è tutta un’invenzione? Per la maggior parte sì, ma queste storie non sono completamente inutili, basta guardarle con occhio critico. Ci dicono poco o nulla del passato, ma molto sul presente e sui nostri desideri per il futuro. Ad esempio Caterina de’ Medici e gli altri protagonisti leggendari della cucina servono a ribadire un’egemonia in cucina che vorremmo eterna e, se lo è stata in passato per un paio di secoli e in buona parte lo è anche ora, nessuno ci può assicurare che lo sarà per sempre. Ribadire oggi tale leggenda evita di confrontarsi con la gastronomia degli altri paesi, ergendosi semplicemente a modello culinario per tutti. 

Da qui deriva l’altra grande certezza, ovvero che le nostre ricette risalgono alla notte dei tempi e sono state create dai nostri avi con quello che avevano a portata di mano senza alcuna influenza esterna. Scompaiono i commerci (se non quando si parla di nostri prodotti che viaggiavano per il mondo) e si ripiomba in una dimensione autarchica dell’alimentazione che non é esistita nemmeno nei periodi più bui dell’umanità. Anche questa visione è un riflesso del desiderio di valorizzare il proprio territorio attraverso le produzioni di qualità, filiera corta e km zero, aspetti che attualmente inseguiamo nella politica reale del nostro Paese. 

Le leggende di una società rurale idealizzata dove non si buttava nulla, la carne si mangiava una volta alla settimana e si viveva secondo i ritmi delle stagioni rispecchia invece quello che vorremmo riavere indietro, almeno in parte, pur senza rinunciare al progresso che abbiamo conquistato finora. 
La cosa interessante è che non è sempre stato così e questo immaginario lo condividiamo solo da due o tre generazioni a questa parte, mentre per migliaia di anni abbiamo sognato cose diverse: cibo in abbondanza per tutti, alimenti calorici e gustosi da mangiare senza limite e, soprattutto di essere liberati per sempre dall’incubo della fame. 

Le leggende hanno sempre un senso, ma devono essere interpretate, come i sogni, se invece vengono prese alla lettera rischiano di confonderci.