Uliassi.
Il treno arriva a Senigallia, m'attende l'Amico Ritrovato. Ci siamo rivisti dopo anni, poi sono successe cose: e ci siamo stretti la mano come fanno gli amici con le promesse che si fanno gli amici, quelle che non hanno bisogno di carta bollata e riconferme ma solo di una cifra ipsilon di complicità.
Dunque venne il giorno, e il treno arrivò, e tanto tuonò che piovve. Sul lungomare i colori sono tutti nello spettro dal grigio al bigio, e manco si può fare la passeggiatina per far venire l'orario: ci palesiamo sull'uscio con lieve anticipo. Who cares, pare dire il volto illuminato di cortesia che apre la porta e ci guida al tavolo. Isole lontane, i tavoli di Uliassi, con gli ombrelloni dal grigio al bigio in distanza, e qualche pennellata di blu fuori dalle grandi finestre. Il bianco oggi non abbaglia ma la luce è potente e disegna forte l'immagine che attende silenziosa sul tovagliato. È l'omaggio di Mauro Uliassi al folgorante biancoenero di Marco Giacomelli, immenso fotografo marchigiano capace di condensare nei suoi fotogrammi dramma, forza, potenza e nel contempo rara sensibilità d'indagine. Tra poco avremo prova della sintonia anche estetica della cucina di Uliassi con la poetica di Giacomelli.
Abbiamo scelto il Lab edizione 2025. Convenevoli di mano e di parola passano avanti, mentre con l'Amico Ritrovato si ricompone la confidenza, la sintonia, l'essere. I segreti confessati, le parole dette, quelle non dette. Gli anni come tessere del mah-jong.
omaggio a Mario Giacomelli |
Viziati da un susseguirsi di attenzioni e di sorrisi, percorriamo i minuti lasciando tracimare pensieri, sentimenti e presagi. Chiudiamo fuori il mondo e la sua opprimente immanenza contemporanea, i telefoni nei taschini, una piccola enclave di dedizione al momento, qui e ora. Ne vale la pena, scopriamo, mentre sul tavolo atterra il primo vero passaggio del Lab. Colori acquerellati, come certi pannelli giapponesi in cui i piani si disvelano con velature successive, in tono su tono appena accenato. Ecco il Milk Shake d’aringa con le alici le noci e luppolo, ed esplode il silenzio. L’assaggio – letteralmente – rapisce. Toni freddi eppure folgoranti, mare dentro, sapidità diafana e finale amaricante in totale controllo. Finalmente incrociamo gli sguardi, come a dire “Ecco”. Come a condividere qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato, perché dice tutto di se stesso senza l’urgenza delle parole.
Se qui veleggiamo nella negazione dei colori come accade in una giornata nebbiosa, ecco il patchwork sfavillante del cannolicchio con il suo sugo, denso più di sapore che di tocco, la freschezza del sedano, i fiori di pesco, e le schegge folgoranti del pepe Siltimur – più conosciuto come Timut - fitto di sfumature agrumate e tropicali.
Milk Shake d'Aringa |
Cannolicchio |
Lumache |
Passano le lumache variegate al verde, umide e terrafondaie, giusto un passo prima della travolgente comparsa della pasta ai ricci. Potenti, maniche di frate di sodezza giusta, vergate di salsa ai ricci a racchiudere le vibrazioni marinaresche, e il baricentro che via via si sposta verso i toni esperidati del mandarino, il balsamico-resinoso del ginepro in un boccone concreto e arioso nello stesso momento. Cinque bocconi, ne vorresti ventotto – ci facciamo un cenno d’intesa – ma sai che la corsa è lunga conviene tenersi.
La cucina di Uliassi non richiede soverchie spiegazioni: è come una stand up comedy con i tempi comici perfetti, in cui il protagonista non ha bisogno di pause ad effetto per chiamare l’appaluso o la risata: tutto scorre. Anche l’apparizione dello chef, il suo saggio discorrere attorno alla giornata senza involversi in approfondimenti sui dettagli. Lo sa, lo chef di lungo corso, che si ride alle barzellette che non hanno bisogno di essere spiegate. E noi qui non stiamo ballando d'architettura.
Sa, lo chef, che c’è il momento della decompressione, con il piatto di mezzo della cipolla, trafitta dai frutti rossi freddi. Indispensabile, prima di uno dei frammenti terragni per eccellenza, quasi primordiale nella sua verità. Il rognone di pecora – sospeso alle variazioni all’agrume e alla barbaietola – viaggia deciso nei territori dei piatti di pancia. Ed è mossa di classe, prima che appaia il cardine implicito della giornata.
Lo spaghetto Mario Giacomelli, un misurato viluppo di pasta appena spolverato di nero – come cenere finissima di carbone – cela e disvela il nerissimo sottofondo che dilaga non appena i rebbi della forchetta trafiggono la spirale di spaghetti. Visto di tre quarti, ma ancora meglio dallo zenith, il piatto accosta un disegno astratto in due colori a fianco del cabalistico numero 100 – quello dell’anniversario – di grande impatto non solo papillare ma anche e forse sopra tutto emotivo.
Masticazione, sapore di mare, intensità e vigore quasi drammatico. Pochi fili di pasta, e apprezzi la misura minima: è proprio questo lo spirito dell’artista Giacomelli, che si confronta con i vuoti e i pieni del contrasto binario spinto ai limiti estremi.
La conversazione si fa rarefatta, ci sono cose che si dicono e non si ripetono, argomenti che si sfiorano, piatti che sfilano tra le righe - deliziosa la sogliola, irresistibile l’ossobuco – completando un’opera di cui non è immediato tenere le fila. Fuori piove, dentro la costoletta d’agnello, di cui pare stucchevole celebrare la sontuosa cottura e il vibrante sottofondo.
La pasticceria non può che essere una chiusura di misura, garbata e virata alla finezza: la granita di albicocche, come una pausa nel cammino dell’orchestra in cui il silenzio si fa parte integrante dello spartito, e il finale fresco con il gelato al caffè, lo zenzero e il rosmarino.
C’è il tempo di quattro chiacchiere, fors’anche otto: le sale si sono ormai svuotate, abbiamo inziato per primi e terminato per ultimi anche perché ci siamo letteralmente abbandonati ai fuori programma inventati dallo chef. Provo a chiedere un ritratto, incasso il consenso, passo allo scatto. Provi a non sorridere, chef, Però metto gli occhiali.
Salutiamo, rammaricandoci che nessuno ci abbia sequestrato e trattenuto per sempre. Confuso e felice, saluto l’Amico, ma tocca rientrare che ho dimenticato qualcosa. Si dice che un saluto non basta: ma fu più vero. La stretta di mano è asciutta e vera, l'arrivederci è un patto, il ciao è un sigillo.
La giornata è nostra.
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