
George, I suppose.
All’inizio del secolo diciannove nasce George dei Bidder, una famiglia del popolo del Devon britannico. Il ragazzo manifesta fin dalla più tenera età doti straordinarie. Maneggia i numeri e i calcoli aritmetici con una facilità e una velocità fuori del comune facendosi notare a scuola e in società.
Con l’interesse di alcuni benefattori e mecenati che lo sostengono in una rapida carriera accademica fino alla laurea in ingegneria George Bidder, che adotterà il “middle name” Parker in omaggio a uno dei suoi “sponsor” come diremmo oggi, si apprestò a divenire una delle figure chiave dell’ottocento industriale nell’isola di Albione.
Acquisì fama e denaro, anche se curiosamente la storia lo relegò ai margini della narrativa: uomo brillante e colto, discreto nel comportamento e rigoroso nella professione e nella vita, non attirò mai a sé la luce dei riflettori non ostante le cospicue fortune. Su queste basi anche l’erede, George Parker Bidder II si ritagliò scampoli di popolarità e successo al punto di offrire alla terza generazione una vita agiata nelle atmosfere languide del Grand Tour al protagonista antico della nostra storia.
George Parker Bidder III era biologo marino, ma sopra tutto era un uomo dalla sfavillante sensibilità estetica, sopraffatto dal culto della bellezza, innamorato dell’Italia e di Napoli dove amava soggiornare lunghi periodi al Beau Rivage come vero "gentleman" dell'epoca. Lo storico albergo a Chiaia annaspava in difficoltà economiche: George aveva mezzi e cuore per occuparsene. Leggenda vuole che un giorno l'andare del suo tempo venisse spezzato dall’ennesima visita del pedante funzionario del tribunale che veniva a riscuotere debiti e arretrati. a quel punto George si rivolse al concierge con la famosa frase “mettetelo sul mio conto”: si riferiva all’Hotel.
Se questo pare essere poco più che un aneddoto, vero è che il nostro George aveva sostanza per acquisire l’hotel, e davvero lo portò a patrimonio familiare per molti anni. Ecco che il Beau Rivage lascia il posto al Parker’s.
Attraverso le vicende della città e del mondo poi l’Hotel, situato in una straordinaria posizione di fronte al Golfo di Napoli con una vista letteralmente mozzafiato, passa nelle mani della famiglia Avallone, che tutt’ora lo ha in gestione.
Se il nome dell’hotel è un gesto di riconoscenza nei confronti dell’uomo che lo salvò, l’insegna del ristorante guidato da Domenico Candela è un pensiero affettuoso per l’attenzione di George Parker per la bellezza, per il Mediterraneo e Napoli in particolare, e per il suo raffinato pensiero artistico. Non stupirà dunque se la proposta gastronomica è improntata all’eleganza anche negli episodi più potenti, se tutto il percorso è attraversato da momenti ludici, se la vista che si gode dai tavoli è una nuance inimitabile che ammanta tutto di un brillante velo di fascino.
Lo chef è napoletano, così come il personale di sala – affabile, preciso, temperato – al punto che il fluire delle portate acquisisce quasi il tono di una narrazione romanzesca alla Rudyard Kipling, o Joseph Conrad, seppur meno incline alle penombre. L’esplosione di aperitivi è una ouverture di classe cristallina in cui c’è pure il tempo di ricordare, forza di Lapalisse, il primo scudetto maradoniano, un vero e proprio climax della città.
Scelto tra i tre menu l’episodio più contemporaneo, avrai un susseguirsi di suggestioni rappresentate sempre con rigore e intuizione, di pensiero e di levità. Se il polpo alla luciana racchiuso in una perfetta sfera nera come una pralina risuona di sfumature streer temperate e cangianti, la granita con la spuma di barbatola vola via in leggerezza ad ancipare una composizione che mette subito in chiaro i parametri dell’espressività dello chef. Ecco dunque una millefoglie di sedano rapa lavorato al punto di sodezza opportuno per congiungere soavità e masticazione, l'aggiunta di una folgore di olive e un consommè tiepido. Vince l’esattezza delle temperature e la compostezza della presentazione. Se la seppia è ingrediente d’ordinanza da queste parti, è la lavorazione che ne sposta il baricentro verso l’alto con una tessitura vicina a quella delle cotenne, deliziosamente accogliente. Ricamata con la minuzia di un'amanuense, sposa la dolcezza della crema di patate e il graffio appena accennato della salsa alla rucola con tutte le sue amarezze. Il nero dispensato con misura scuote senza soverchiare in un paesaggio di grande appagamento.
Passaggio assai pregnante, quello dedicato al diaframma di vacca vecchia, sfiorato dalla fiamma e irrorato da una scarpettabile salsa dagli accenti a tratti esotici. Morso fermo ma delicato, con un finale quasi etereo. Dal reparto gioielleria giungono i cappelletti di faraona: piccolissimi, esatti, il ripieno morbido – quanto sarebbe bello averne anche di meno soffice, magari a ricordare la coscia di faraona che non è poi così gentile - e il brodo di tuberi sapido e terroso cche hiude con un tocco che aggiunge valore.
Ancora omaggi alla terra che ospita il Parker’s: anguilla cotta al carbone bianco con addizione di salsa di minestra martitata ai friarielli. E ancora l’agnello, ma parliamo della lingua: in sostanza un taglio di bollito fatto bene, garbatamente impreziosito da “taratufi” e fasolari. Qui l'eleganza diventa il tratto dominante, e il lieve apporto tannico del tè Lapsang Souchong un intervento indispensabile.
Colpo di cannone sul finale con la lievre à la royale, ma fatta “alla maniera di Candela”: parature di lepre, si. Preparazione di selvatico classico sì, ma con una salsa di fegati d’anguilla e di nero di seppia a vincere ogni resistenza.
L’intermezzo dedicato al formaggio - caprino del Monte Jugo - grattugiato direttamente al tavolo, è un ulteriore momento di empatia che si conclude con un azzardo calcolato: il pan perdu viene con una setosa quenelle di gelato all'alga imperlata di caviale oscetra. Sì, è un dolce vero, ma con precise derivazioni che ne compongono e attenuano il complessivo: namelaka allo yuzu, mou al ponzu, un bel volo a plandare dall'altra parte dle mondo.
Lascerai ora che si scateni la napoletanità con il Gran Finale al Tavolo: il Maschio Angioino, l’Asso di Coppe, il cornetto, e l’autoironico riferimento al Sangue di San Gennaro, un drink dall’ampolla che ne rammenta il rito apotropaico.
George ricalca con precisione l’atmosfera del luogo, non tanto per l’idea del prodotto di prossimità quanto proprio per l’edificio e il suo essere lì, immanente e credibile nel tempo. E il progetto compiuto di Domenico Candela - energetico e sartoriale nello stesso tempo - ne è la plastica rappresentazione nell’universale concreto di una appagante esperienza sensoriale.

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