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Terraforte, opera in sasso al Castello del Terriccio

Siamo quasi al dessert quando brilla il display del telefono, che di norma ignoro ostentatamente al tempo della cena. Ma l’accento autenticamente toscano mi schiaffeggia ancora prima di rispondere, ancora prima di leggere il nome sul display. “Allora, ti sei già innamorato?”

Di là c’è Cristiano Tomei, impegnato in uno dei suoi chissà dove, che in quattro parole fulminate e roventi mi dice perchè Terraforte - e il Terriccio - sono luoghi irresistibili. A partire dal lunghissimo viale d’ingresso che nella notte precoce di novembre ti fa rullare su un tole ondulè che potrebbe essere a Rovaniemi o nel Tassili, tanto poco si vede attorno. E poi il borgo, o meglio: i borghi, che questa immensa tenuta fino all’altro ieri era un paese, una comunità.

Tomei ha preso le redini di Terraforte, il ristorante di Castello del Terriccio - in Alta Maremma, per i più curiosi - e vi ha innestato il suo vocabolario vibrante, a tratti tellurico, raramente indulgente, quasi mai compiacente, eppure comprensibile, accessibile, toscanissimo. Gli accenti, quelli che contano, attraversano la tavola con intensità martellante eppure gentile. 

Sono a tavola con Vittorio Piozzo di Rosignano Rossi di Medelana, appassionato proprietario di questo angolo d’italia, e Riccardo Simonelli, voce narrante della Tenuta. tra una portata e l’altra incasso la romantica storia del Terriccio - che merita un capitolo a parte - e del colpo di fulmine che ha portato alla nascita del ristorante e del sodalizio con lo chef de L’Imbuto. Si cena nella grande sala di degustazione, affiancata da una più raccolta sala da pranzo, quella che fino a pochi decenni fa era la falegnameria della Tenuta. Del resto questi grandi complessi erano veramente economie circolari, dove di sopperiva a tutto ciò che poteva essere prodotto in casa. Restaurati - e conservati - alcuni attrezzi, romanticamente datati, come la gigantesca sega a bindello. Il grande corpo di fabbrica è stato oggetto di una affettuosa ristrutturazione in cui la pietra e il cristallo sono la struttura, il legno l'anima: come dire esprit de géométrie ed esprit de finesse nello stesso luogo. Intimo la notte, luminosissimo il giorno, con luci vetrate smisurate.

Il racconto che si snoda in tavola - affidato alle solide mani di Plinio Addondi, resident chef - tocca con decisione i colori del territorio, e qui parrebbe che a Tomei piaccia vincere facile: tutt’attorno produzioni agricole, orti, riserve di caccia. E allora via con i prodotti “di casa”, i selvatici sparati, le produzioni di prossimità.
Ma accordo dopo accordo si concretizza la sensazione di una proposta chi si scosta dalle tendenze e dalle mode, e anche da quel “pittoresco” che non di rado affligge le tavole agricole, innestando momenti di intensità espressiva fuor d’ordinario. A dire il vero ero già capitolato con “l’ostrica all’arrabbiata”, una seduzione pungente, improvvisa e inconsueta: ma il seguito non è da meno, con lo spettacolare carciofo fritto all’arancia, lieve e potente ad un tempo; con la debordante triglia pastellata; con un risotto che non ha paura della cottura vera; con un piccione dai tratti brutalisti ma accarezzato dalla classicità di fondi archetipici.
E i contorni, serviti nelle ciotole di terracotta come a casa, le sere d’inverno.

Vorrei dire dei bicchieri: quelli del sole etrusco nell’etichetta. Dal Sauvignon-Viogner del Con Vento, al sorprendente “Caberlò” Tassinaia, rarefatto e cortese; al tridimensionale Castello, da uve Syrah. Fino al campione di casa, l’affascinante Lupicaia, degno di lunghissime e pertinaci attese. Ma di questo parleremo un’altra volta.