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Le Langhe dell'Arborina


A noi che il vino del Piemonte l’amiamo, a noi che le Langhe suonano un po’ come l’Ultima Thule, a noi, che il Nebbiolo lo teniamo sull’altarino delle cose preziose, a noi che nel mirino della macchina fotografica puntata verso i Cannubi vediamo il Segno, a noi scoppia il cuore quando risaliamo la brigosa strada de La Morra, e scoppia di gioia e di bellezza, tanto che dura fatica immaginarne il sovrannumero. 
Invece varcato il ferreo cancello de l’Arborina non puoi far a meno di lasciarti inondare da quel senso di armonia e garbo che solo l’abilità di certi umani sa dipingere. In forma e in sostanza, dall’architettura alla struttura all’ambiente all’arredo, al silenzio che si potrebbe impastare con la gioia, all’Arborina ce n’è in abbondanza.

In fondo al viale vestito di splendide verzure trovi un angolo per ristorarti, all’ombra, e l’ingresso dell’Osteria, un cubo luminescente in cui evoluisce lo scafatese Fernando Tommaso Forino, a cui è stato di recente affidato il timone della ristorazione del resort.

Vetrate grandi come il cielo, cucina a vista, arredi sobri, un fascinoso seminterrato ad uso di cantina e varie, e una cucina che innesta l’ampio vocabolario estetico dello chef nel luminescente patrimonio gastronomico delle Langhe.

Cucina di sintesi o di contaminazione? Lo scopriamo passo passo, fin dall’anteprima degli snack in cui l’intenzione ludica si sovrappone e a quella aromatica, in cui il cesello e il gesto sono strumentali alla realizzazione di vere e proprie metafore gustative, un ritornello che ritornerà in vari episodi: olive che non sono olive, candele che non sono candele, come più tardi le arachidi che non sono arachidi. Vera invece è la foglia di vite acidulata, una folgore mediterranea che in qualche universo ricorda le elleniche dolmades, ma più gentile.

Un carciofo che è compendio di cento sapienze - la giudìa? la romana? - e valorizza l’approccio di utilizzo totale dell’ingrediente con salse e creme; lo sgombro, formalmente eccellente ed aromaticamente pure, che recupera il pesce fino alla lisca e rivitalizza l’ingiustamente abominato prezzemolo; il risotto, che si inerpica sulla sferza delle interiora di calamaro, senza abbandonare il canone della cremosità burro-e-formaggio; il cocktail di gamberi richiamato a vita da un legatissimo spaghetto; la fassona, scostata per un istante dal ruolo di protagonista a favore del piatto che fidanza il fondo bruno e i piselli, un telegramma a mille finanziere.

Cucina di gesto e di pensiero, piatti di progetto e d’ispirazione, in cui si ritrovano spunti contemporanei e riferimenti culturali che attualizzano importanti sedimentazioni storiche. 

Lo sguardo all’intorno è un cemento solidissimo nell’edificio di piacevolezza costruito fin dalle prime rampe di strada: la delicata presenza-assenza di una sala affabile e profondamente competente sono solo l’ultimo episodio di un racconto di cui vorrai conoscere le prossime puntate.