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L'iper-specializzazione della cultura contemporanea: la fine e/è il suo inizio

L'iper-specializzazione della cultura contemporanea: la fine e/è il suo inizio

Da qualche parte ho letto che il cervello umano sta lentamente ma inesorabilmente rimpicciolendosi. Eppure, pare che le dimensioni non contino nemmeno in questo caso… La sua efficienza, infatti, non dipenderebbe tanto dalla sua superficie ma dalla rete delle sue sinapsi le quali sarebbero in grado di crearsi, e ricrearsi, a prescindere dallo spazio occupato dalla sua massa. Magari, tuttavia, la cosa fosse così semplice… Secondo David Geary, docente di Scienze Psicologiche all'Università del Missouri, il rimpicciolirsi del cervello umano sarebbe la prova che l'intelligenza del singolo sia sempre meno necessaria ai fini della sopravvivenza. Complice, difatti, l'iper-specializzazione che caratterizza la nostra cultura, l'individuo da solo non avrebbe alcuna possibilità di sopravvivere nel mondo contemporaneo mentre in comunità le sue chance sarebbero non solo maggiori ma perfino assicurate grazie alla rete di competenze istituita dai suoi consimili. Ancora una volta, insomma, sarebbe la rete - nel cervello di sinapsi, nella società delle relazioni - la depositaria di un particolare tipo di evoluzione che se da un canto vede il male comune di un individuo sempre più stupido e più incapace, dall'altro propaga un sopra di capillare gaudio nella società da esso creata, e a cui è speculare. Alla spartizione della conoscenza in discipline e sotto-discipline nelle quali è organizzato tutto lo scibile contemporaneo - chiamiamola pure epistemologia - corrisponderebbe dunque, e specularmente, una conformazione cerebrale via via sempre più ridotta, o comunque sviluppata solo presso un determinato ambito: quello di riferimento per ogni singola individualità. Dividi et impera, dicevano i Romani, ma non è sempre stato così, anzi. C'è stato infatti un tempo in cui l'organizzazione della conoscenza era congegnata come un tutto unico, così la matematica si teneva con la filosofia, la metrica con la fisica. Tutto il sapere fino al Medioevo si fondava su una visione organica dello scibile che rendeva ogni uomo - ammesso che questi avesse accesso alla cultura - una singolarità sostanzialmente onnisciente. 

Da parte mia, per quel che può contare, ho sempre colto una inquietante incongruità presso coloro che professassero un punto di vista eccessivamente definito sulla liceità di questo o quel vino, ignorando per contro tutto quanto concernesse altri ambiti del piacere estetico come la musica e la letteratura, giusto per dirne due. Come si fa, mi sono sempre domandata, a sviluppare un senso estetico così spiccato per un ambito dello scibile, poniamo, appunto, il vino, trascurando completamente tutti gli altri? È come se uno riconoscesse la perfezione della Berceuse di Chopin interpretata da Arturo Benedetti Michelangeli e, allo stesso tempo, guardasse solo programmi come il Grande Fratello Vip… Non voglio dire che le due cose siano incompossibili ma, quantomeno, suonano abbastanza sospette. 

Eppure, nemmeno troppo tempo fa sono stata chiamata a rivedere parte delle mie convinzioni. A Julie Cavil, eminentissima Chef de Cave di Krug, ho difatti avuto l'imprudenza di chiedere quali fossero, nel resto dello scibile champenoise, le sue bottiglie di riferimento. Ricordo che bastò il suo sguardo per farmi cogliere tutta l'ingenuità della mia domanda. In primo luogo perché dimostravo di esser totalmente digiuna delle strategie di comunicazione, risolutamente corporate, che un gruppo come LVMH, cui Krug appartiene, impone ai suoi affiliati; in secondo luogo perché Krug, più ancora di tutte le altre Maison, tramanda tutto il suo scibile di riferimento di Chef de Cave in Chef de Cave, con lo stesso modello verticistico utilizzato, sempre nel Medioevo, dai bibliotecari e prima ancora, presso gli Egizi, dagli scriba, i quali erano depositari di una conoscenza onnisciente, appunto, ma esclusiva ed esclusivista, elitaria ed elitista, tale proprio perché chiusa, appunto, al resto del mondo. Nata con Krug, in Krug s'era formato e s'era sviluppato tutto il suo gusto e la sua conoscenza in materia. Null'altro non solo la interessava ma né avrebbe mai dovuto interessarle né trovare asilo nella sua sfera estetica ed epistemologica, per quanto concerne il mondo dello Champagne. 
Ma attenzione perché, benché settaria, la conoscenza intesa in questo senso non è tuttavia minimamente settoriale. 

Inutile dire infatti che dal passaggio di testimone da Éric Lebel a Julie Cavil gli Champagne Krug e, soprattutto, la più complicata e sofisticata delle sue creazioni, la Grande Cuvée, è diventata più precisa e s'è fatta più grandiosa, ovvero più coerente con l'identità stilistica non solo di Krug ma dello Champagne per estensione, inteso nell'accezione più ecumenica del termine. Di tutta la Champagne la Grande Cuvée rappresenta infatti una miniatura, ancorché grandiosa e dettagliatissima: il territorio, infatti, si identifica da sempre con un imperativo particolare, ovvero quello che vorrebbe replicare all'infinito una identità, una individualità, una indole, raggiunta attraverso la molteplicità e la pluralità di un blend tra annate e parcelle differenti. È questa singolarità, questa identità attraverso la pluralità a caratterizzare Krug che, mediante la combinazione di oltre cento vini diversi ogni anno (190 nella Grande Cuvée 170ème Édition, l'ultima uscita) perpetua ogni volta l'impossibile, ineffabile essenza della Maison e del territorio cui appartiene riuscendo peraltro a rappresentare, e magnificamente, anche la contemporaneità iper-specializzata e iper-individualista che stiamo vivendo: un momento storico in cui l'individuo appare capace di trovare, salvo rare eccezioni, solo nella rete la sua unica ragione di essere e di esistere.