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Il Cavallino, ologramma di un mito

Raccontare il Cavallino - così come ogni nuova impresa di Massimo Bottura - è un impegno defatigante, sopra tutto dopo l'alluvione di parole che ha accompagnato l'apertura - o meglio, la riapertura - del locale maranel-ferraresco nel nuovo abito voluto dal Max Massimo a firma dell'archistar India Mahdavi.
Difficile perchè sono stati usati tutti i superlativi, tutte le figurazioni, tutte le metafore. Difficile perchè se sei intonato al coro sei uno dei tanti nel coro, e se sei fuori dal coro sei il solito bastian contrario. Difficile perchè si sfiorano con le parole i sancta sanctorum, e prendere posizione diventa quasi più una scelta di campo che una descrizione oggettiva.

Eppure di cose da dire ce ne sono, e parecchie. La prima: per uno che ha lavorato a Maranello per anni, e non è piu tornato per un decennio, l'impatto con la cittadina modenese è staniante: quasi un Luna Park rosso con inserti neri in campo giallo. Il segno è Ferrari, e non altro. Quindi l'operazione de Il Cavallino è perfettamente inscritta nel mito, raccogliendolo ed esaltandolo dove possibile: rispettoso ma non troppo genuflesso di fornte e di fianco ai parafernalia automobilistici. Motori, pistoni, pulegge, appendici alari, immagini del Drake e dei piloti e delle corse e delle auto campeggiano prendendosi la scena, quasi a trasformare la cucina in evento gregario. Che gregario è pure un mestiere che si può fare con garbo e saggezza, raccogliendo la gloria ove possibile: ad esempio appena seduti al tavolo, quando l'idea di trattoria italiana, comunicata a gran voce da ogni angolo degli ariosi locali, viene sovrascritta da un servizio di classe superiore, di abbagliante tecnica e convincente partecipazione pur in una modalità largamente emendata dai gessi del ristorante gurmettoso.

Bottura misura la sua impronta con la saggezza di chi padroneggia la scena, come il grande tenore - e in questa terra lo possiamo dire - che attraversa l'opera con attenzione e riguardo fino ad esplodere in quel momento che cancella tutto il resto rendendolo comunque memorabile. Perchè se c'è l'erbazzone lo vedi alla sua maniera, la Caesar Salad è scritta sul pentagramma botturiano in modo quasi filologico, la lingua è vergata con perfezione certosina, la costina brilla di una esecuzione puntigliosa. Ma il "Nessun dorma" del Cavallino fa proprio rima con cotechino, quel cotechino Rossini che vale il viaggio, la calura, la retorica, la vita, luniverso e tutto quanto. Un boccone che prende d'assalto i sensi, li tiene in ostaggio per lunghi quarti d'ora, li sequestra con pervicacia, e li rilascia solo quando un bicchiere versato con sagacia dalla "bevutella" lo consente.

Si va a Maranello per lucidarsi gli occhi con giocattoli preclusi ai comuni mortali, e per lenire la privazione ci si può concedere il mito accessibile: il compendio di un grande stratega della cucina e della comunicazione, uno dei più fuldigi esempi di intelligenza trasversale che qui porta valore aggiunto a un qualcosa che parrebbe non ulteriormente elevabile: eppure quando vedi un ragazzo giapponese che aggrappato al cancello della fabbrica scatta una foto all'insegna, poi si gira e ne spara una serie all'ingresso de Il Cavallino capisci che la parabola è compiuta, il cerchio è chiuso. Solo chi cerca un altro Bottura sarà deluso dal ristorante di Maranello, perchè questa Casa mantiene quello che promette e null'altro. Per le acrobazie ci sono altri luoghi, qui c'è la certezza, il previsto fatto a modo, il prevedibile che sorprende.

"Lo spettacolo è terminato, applausi".