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Feva, stelle e castelli

Ci sono ben due motivi per organizzare una gita a Castelfranco Veneto. In ordine del tutto casuale, il suo castello e Feva, il ristorante di Nicola Dinato ed Elodie Dubuisson.

Non è antichissima la città murata: risale alla fine del secolo 13 la sua fondazione. La curiosità sta nel nome: il castello-città fu "francho" perchè da Treviso vennero mandate cento famiglie di cittadini, e non una guarnigione militare. Forse in questa particolare circostanza risiede l'operosità delle sue genti, tutt'oggi capaci di rendere il Comune prospero e produttivo. Per una volta la posizione strategica non è conferita da un puro vantaggio nelle arti militari, ma proprio dalla sua dislocazione, a breve distanza da tutto. Non a caso per raggiungere la città servono solo due strumenti: o l'elicottero, o la pazienza, a causa del folle traffico su gomma. Da sempre crocevia di tutto, e come tutti centri importanti del nostro Paese continuamente conquistato e perso e ripreso.

Nella barchessa del convento s'apre lo slargo del Feva, il capo da tennis curiosamente trasformato in un prato, l'orto, gli alberi centenari. All'interno, il misurato buon gusto e l'attenzione al dettaglio spalancano un paio di sale luminose e accoglienti in cui lo chef ha progettato il suo presente, all'alba di un decennio fa. Oggi celebra la storia del locale con un menu intitolato Decade non a caso, affiancato al contemporaneo Anima, espressione della più cronometrica attualità.

Da una rapsodia di piatti pescati a sentimento per rappresentare l'uno e l'altro emerge uno sguardo più legato agli ampi orizzonti del mondo che ad un miope localismo, frutto anche di un vocabolario espressivo che parla molte lingue e non sono solo idiomi: ricercato, a tratti sofisticato il senso del giuoco, che in certi momenti vale come antemurale di una esplosiva carica di gusto. Per l'esempio, l'incredibile Hot Pork che se da un lato richiama i "perritos calientes" e gli onnipresenti panini oblunghi di New York, dall'altro consolida una composizione che danza sul filo dell'Oriente - il naso di maiale fritto, l'umeboshi, il paninetto al latte - viaggia in nordamerica con una sorta di lievissima coleslaw, e finisce per atterrare proprio qui ed ora, in Veneto, con il rafano grattugiato.

In omaggio alla vocazione veneziana di Castelfranco - e del side project dello chef in laguna, quello Zanze dalle fortune televisive - anche tanto mare, qui al Feva: il Fondale Marino è uno splendido diorama subacqueo, la calamarata cacciuccata è un affresco sovraregionale di squassante sapidità, l'anguilla "americana" è gioco di sponda tra gli oceani. Il più "antico" dei piatti proposti risale al 2013 ed è un chiaro omaggio alla terra ospite: risotto prosecco e ostrica, di fattura classicamente adamantina e quasi calligrafica. L'ennesima variazione sull'esercizio obbligatorio del piccione rifulge di chiarezza d'intenti, mentre il predessert di pesca, liquirizia e frutto della passione sgomita bene per raggiungere il rango di dessert vero e proprio, almeno al fianco del "tiramigiù".

Quattro chiacchiere con Dinato per conoscere frammenti della sua storia, tra l'Italia e il mondo, con Elodie compagna di vita e di missione,  e il nome del ristorante preso di peso da quello che oggi chiameremmo "nickname" di famiglia, al tempo dei tempi.
Ordine e misura, momenti ludici, sguardi allungati sull'orizzonte, e un compendio di generale piacevolezza che si chiude con una testa di vetro piena di cervelli. È "brainstorming", l'arrivederci dolce ma non troppo che non si prende troppo sul serio, ma lo fa molto seriamente.