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904 - Il Cercatore d'Oro

904 - Il Cercatore d'Oro

Il cercatore non era un uomo rude. Anzi, forse non era nemmeno un cercatore. Probabilmente era un immaginifico poeta imprigionato nei panni di un linotipista. O forse un fuochista sotto i cui panni fumosi si celava un delicato bardo. O un lirico ingabbiato nel corpo di un agrimensore, o di un notaio di catasti, oppure ancora un ragioniere.  

Il cercatore si pensava cercatore solo perché non aveva mai smesso di perlustrare i mondi e le città: ed era una ricerca olimpica, perché non sapeva davvero cosa stava cercando. Se il biglietto della lotteria da un milione di dollari, o l’amico d’infanzia di cui ricordava il cognome ma non il volto; se un pozzo di combustibile minerale o un animale preistorico dal cuore fossile; se il monile che la sua prima fidanzata aveva smarrito quella volta a Conesworth o il quaderno in cui aveva scritto il suo primo, immortale romanzo dimenticato. Eppure cercava, per i mondi e le città, e intanto si portava a casa le cose.  Dunque non era un uomo rude, anzi se a un posto di blocco o a un confine di stato avesse dovuto dichiarare il suo credo, avrebbe risposto con voce ferma Credo nella bellezza.  La celebrava con adorazione, dal primo minuto in cui apriva gli occhi: cercando nel mondo il suo alfabeto. Forse era per quello che si sentiva molto più cercatore che letturista di contatori dell’energia elettrica. Si sentiva molto più cercatore che direttore delle risorse umane di una plutocratica multinazionale. Molto più cercatore di fiscalista, esattore al casello autostradale, venditore di polizze assicurative, cuoco di batteria, conduttore di trasmissioni televisive.  Forse non era un cercatore, non era stato nel Klondyke e non mangiava lardo e patate; non portava lunghe barbe gialle e non masticava tabacco; non andava allo stadio la domenica e non si trastullava con grosse auto da mille cavalli.  

Allora capitò che un giorno, dopo aver cercato come al solito i mondi e le città, immerso nell’acqua gelida del fiume Isle-at-Crompton sull’altipiano di Meanwhite la vide. Sul piatto d’acciaio, plumbeo nell’aria cristallina della montagna, proprio sull’orlo si era adagiata una pagliuzza. D’oro.  Era così sorpreso che per due quarti d’ora non riuscì nemmeno a fare una cosa. Balbettava e tremolava, lui che era sempre così determinato e sereno, e deciso, e rapido. Guardava ancora brillare la pagliuzza, e si domandava cosa aveva trovato: chissà diceva, sarà un frammento di una catenina da venti grammi di una signora caduta con l’aereo privato nel ‘74. Diceva, chissà, sarà il gancino di un orecchino di una bimba lanciata con il paracadute da trentaduemilapiedi. Chissà, diceva, sarà una pagliuzza persa nel fiume da un mercante di preziosi del diciassettesimo secolo, diceva.  E intanto si guardava attorno, per ricordarsi com’era arrivato, e come tornare, e come andarsene, se mai avesse voluto andarsene.  

Perché poi continuò: immerse di nuovo il piatto, e lavò mille chili di sabbia, e spostò mille sassi, e spaventò mille cavedani: e fu solo molto dopo il mezzogiorno che un altro frammento, un granello d’oro, brillò alla luce del sole traverso, al raggio del sole giallo, piccolo, purissimo.  

Venne la notte, a tentare di sedurlo con le sue malìe. E venne il momento di tornare, che non c’era voglia. E venne una lunga corsa verso casa che non era già più casa, con così tante volte di voltarsi indietro che gli parve di avere il collo torcicollo. Ma fu bravo, all’inizio, come quelli che Tanto smetto quando voglio. Guardava le sue pagliuzze solo una o due volte al giorno, sul vetrino appannato dall’alito, e le sfiorava con pinzette, e le riponeva in una scatola di mentine francesi Sanagueule, dove le ritrovava, e le riguardava, ed erano anche più belle. E l’ardimento cresceva, e il desiderio si alimentava di quello sguardo lubrico baciato dai barbagli di luce gialla, e dilatò e compresse il tempo fino alla prossima volta, che fu la volta dopo.  Strada lunga da camminare a passo di carica, pregustare l’attesa, berla alla goccia: poi l’acqua fredda, il sole sugli avanbracci, le lingue sconosciute, l’aria tra le sopracciglia spettinate, le grosse gocce di sudore che scendevano lungo la schiena e il petto e il calore che lo brasava nemmeno tanto lentamente.  

Ma fu solo la terza volta che la pepita, la prima, decise di mostrarsi a lui nella sua gaudiosa fragranza. Era grande come un seme di soia. Luceva come una supernova. Gli tolse la vista. Il senno se ne andò un paio d’ore dopo, quando ne trovò una grande come un fagiuolo zolfino. Poi borlotto, poi poi poi. Poi ne ebbe a dismisura, come ciliegie, come albicocche, come susine. Come datteri, come pesche piccole, come uova.  Ne ebbe tante che faticava a riportare il carico. Ne ebbe tante che tanta luce lo rese cieco a tutto quello che non brillava forte. Ne ebbe così tante che la sua ricerca ebbe fine, perché quello era tutto, quello era sempre. E il suo tutto e il suo sempre, quell’ansa del fiume fresca ma sfuggente, era ancora troppo lontano, e lo chiedeva, e lo chiamava che pareva un urlo. Lo chiamava che pareva un grido.  

Il cercatore smise i panni del cercatore e smontò la sua casa, partì faticoso di carri ubriachi di peso fatica e dolore, ma partì lontano perché c’era solo il suo tutto e il suo sempre, e c’era il modo di farselo bastare, che anzi avanzava: le pepite erano grosse come mele, come patate, come fegati di coniglio, come noci, fichi maturi, come fichi d’india, come fichi verdolini.  S’appostò là attorno, ed aveva ancora una sistemazione provvisoria: ma così bello gli pareva, quel ricovero fatto di sterpi, che da fuori poteva vedere il fiume, e il mucchietto di pepite d’oro di quel giorno o quella notte.  

Non aveva ancora inchiavardato le assi, quando cominciò la fine: e fu più rapida di quanto avesse potuto immaginare. Prima il fiume si rifiutò per qualche giorno di fargli anche solo vedere il colore dell’oro. Poi fece qualche regalo: due, tre pepite come olive. Poi il più bello, puro e brillante che uomo abbia visto o possa anche solo immaginare: una pepita immensa, grande come un pugno, grande come un arancio, grande come un universo. Quando l’ebbe tra le mani sentì che davvero, aveva smesso di cercare.  

Fu il mattino dopo che accadde tutto. La grande pepita, quella bella e fulgida, quella grande come un sogno, era ancora lì di fianco al suo giaciglio. Ma non brillava più. Era nera di piombo.  Gli altri doni del fiume, attorno: la luce si era persa, restava solo il buio grigio di un metallo pesante e malevolo. Niente oro sugli scaffali, niente oro tra le dita, niente luce nei suoi occhi. Corse senza fiato ai bauli, alle casse che aveva riempito con l’oro del fiume e vide piombo e carbone. E la polvere d’oro era sabbia di granito, e le pagliuzze erano limatura di ferro.  Pazzo di dolore, corse al fiume come furia, cercando le pozze fertili da cui era nato tutto: le trovò inaridite. Polle di fango grigio e malmostoso, che si attaccava malamente ai piedi nudi. Il fiume si era spostato. Aveva cambiato il suo corso: invece di quell’ansa disegnata dalla musica delle cose e del tempo si era infrattato in una gola oscura, fetida di muschi decomposti, intossicata dai miasmi dell’ombra ed assordata di rumori.  Vagò per giorni, tornando alla sua nuova, brutta casa che ora appariva per quello che era: una stamberga in mezzo al nulla.  Tornò nei mondi e nelle città, ma aveva lasciato indietro il piatto per dividere l’oro dalla sabbia. Aveva lasciato indietro l’immaginazione e il desiderio, l’orizzonte e la speranza. Tornò nei mondi e nelle città, e si mise a fare il direttore di banca. O forse il friggitorista di patatine del McDonald’s, o lo sportellista di Aziende Sanitarie locali.

Si ingobbì sui ricordi, cercando negli angoli degli occhi il bagliore di quei giorni pochi e felici, ed ora pareva che non sorgesse nemmeno più il sole. Si ingobbì nel livore, piegato dalle domande senza risposta. Si ingobbì nell’urgenza di sopravvivere, ora che ne avrebbe anche potuto fare a meno maledisse gli antenati, che negli eoni si erano invece specializzati a farlo anche contro voglia contro natura contro tutto.  Smise anche di sognare, e non perché avesse smesso di cercare.
Ma perché trovare era stato inutile.