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Paolo Griffa al Caffè Nazionale, il teatro in tavola

Conviene spogliarsi di scene preconfezionate, salendo al Municipio di Aosta. Due occhi di portico più in là c’è il Caffè Nazionale, ripreso a nuova vita da Paolo Griffa fin dalle fondamenta. 
Nel “Grand Tour” delle vaste sale, articolate su più piani, è buona norma osservare gli sguardi del giovine Chef: dardeggiano sulle superfici d’acciaio polito, sui piani di lavoro tecnologici, sui macchinari, sull’emozionante pavimento trasparente attraverso il quale emergono come dal fondale di un mare cristallino i resti di una Domus romana.
È indispensabile comprendere il trasporto e l’immedisimazione che quegli sguardi portano con sè, per quel luogo è senza altra evidenza il tutto e il sempre per il Nostro.

Non a caso nel percorso che Griffa dedica ai più curiosi, ai più appassionati, agli incontentabili, il confine tra la persona, il cuoco e il piatto diventa labile, quasi cancellato dal gesto. Il teatro e il gioco si prendono per mano e accompagnano - a seconda del giorno o della notte - nella luminosa sala da pranzo, o sotto la curiosa cupola innervata, quasi un tempio neogotico, nemmeno un dettaglio lasciato all’improvvisazione.

Ecco, nessuna improvvisazione, ma una vera e propria sceneggiatura che Griffa conduce come fanno quei registi che non sono mai contenti della prima, ma ripetono la scena fino a trovarla perfetta. Perché nel profluvio di combinazioni degli snack sarà molto più appagante ricordarne l’inebriante varietà che indagarne il dettaglio, pur facendo uno dispetto a queste piccole opere di oreficeria del gusto. Lasciandosi poi precipitare verso l’ultimo memorabile boccone, il panino con l’anguilla che ne è degna e umbratile conclusione.

Non ostante la varietà delle "aperture" il lessico griffiano non è certo esaurito con le centomila sfumature applicate ai bocconcini: il gusto dello spettacolo è frequentato con gusto, e non è solo un giuoco di parole. Le patate viola disegnano un fiore nel piatto, centrato sulla sapidità del caviale al centro, e diventano quasi un budino annegato nell’estratto di cavolo viola. Lo spettacolo poi diventa un film - forse a ricordare il passato del Caffè, quando negli anni Trenta qui si faceva cinematografo - con "Puarò o Poirot". Lo scoperto calembour tra l'ortaggio e il celebre infallibile detective guida verso la progressiva scoperta della zuppa di porri mele, zafferano e il rustico popolareccio “budin”. L’ultimo indizio per scoprire la citazione di Assassinio sull’Orient Express sono i baffetti soprincisi alla gelèe di pane…

Ma non basta, che alle porte c’è il risotto-non-risotto di "Milky Way", ottenuto da stelline - sì, quelle della minestrina - e farina di riso lavorati a crema con blu di pisello camomilla e formaggino… un filo conduttore che unisce l’infanzia con la Via Lattea tutt’altro che concettuale, vista l’interminabile persistenza del boccone, gentile solo nella prima impressione e caparbio nel tenere in ostaggio il senso del gusto con un abbraccio avvolgente.

E poi lo storione, in cottura epica, fondente e masticabile ad un tempo, rivestito di una scorza di erbe di montagna che ne ricostruisce la pelle, ancora in deliberata negazione dell’apparenza a favore della finzione teatrale; o il coniglio trasfigurato in porchetta, accompagnato a peperoni.

E poi la batteria dei formaggi valdostani, di ricerca e sapienza, tra i quali perdersi.

E poi lasciarsi trafiggere dalla freccia di Guglielmo Tell che guida l’occhio verso la mela tornita, glassata, arrostita, blandita, scolpita fino a ricordare… una mela, nell’ultimo atto di una pièce che lascia frammenti memorabili ovunque. 

Se cucina è metafora, racconto, divertimento, sinestesia. Se la tavola è abbandono. Se tutto questo è vero, il Nazionale è il posto.