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Osteria dei Pontefici, a Roma

Chissà dov'è l'Osteria dei Pontefici: ovviamete così vicina al Vaticano che la passeggiata postprandiale non può finire che in Piazza San Pietro. Finisco qui un lunedi d'agosto, quando a Roma si può morire di fame: i locali o sono in ferie o sono chiusi per riposo settimanale. Finisco dunque per scegliere una tavola "senza qualità" alla Musil, quindi con tutte le qualità aggrappate ad una ristorazione romanesca dignitosamente commerciale.

Sì, potrebbe uscire da una qualsiasi pellicola dedicata al mondo di mezzo dell'Urbe: nè miseria nè nobiltà, ma una rappresentazione prevedibile - a tratti afflitta da un filo di mollezza - dell'idea che tutti abbiamo di un ristorante nella Capitale. Non manca nulla: nè turisti orientali alle prese con il menu, nè camerieri in camicia bianca e gilè avanti cogli anni, nè il patron che con un birignao flamboiyant passa ridanciano tra gli ospiti-amici, nè le tovaglie sui tavoli. I bicchieri di vetro spesso, quello grande per l'acqua - Nepi, va senza dire - e quello piccolo per il vino.

Chiamo amatriciana e trippa tra le cento scelte, tutte aderenti al canone, e un mezzo di rosso sfuso, e mi sento a mio agio con il caraffino e il piccolo benvenutino di sottaceti e fagiuoli; mi satollo con un certa noncuranza e con adeguato appagamento, seppur lasciando  una parte delle porzioni camionistiche.

C'è pure soddisfazione, che la trippa è immensa (l'amatriciana no), e l'assoluta normalità dell'esperienza assume uno spessore, per dire , straordinario.

Spendi quello che t'attendi, e vai a vedere "er cuppolone" di là dal muro, svizzeri annessi.