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I Barisèi, un affare di famiglia.

Al termine del Torneo di Tennis di Roma, quello che nei tempi in cui lo sport non era griffato anche nei sospiri si chiamava Internazionali d'Italia, vincitore e vinto si scambiarono al microfono infiniti complimenti, ringraziando dal raccattapalle all'avversario con una consumata prosopopea, un eloquio cardinalizio, l'equilibrio di un diplomatico e la precisione del CEO di una multinazionale. Tutto impomatato e pettinato, pronto per essere masticato da ogni genere di medium. Tutto corretto, tutto perfetto, tutto imbrillantinato.

Ecco perchè vedendo Gian Mario Bariselli prendere vigorosamente partito a fronte delle sagaci ma garbatissime osservazioni di un Melandri puntuto a proposito della narrazione del vino, ho avuto la netta sensazione di avere di fronte un uono schietto. Vero, come si usa dire nello storytelling. Gian Mario rivendicava la sua contadinità nel mare di storie nelle quali si risale all'anno mille per intestarsi quarti di nobiltà, raffigurando con ampi gesti un passato non troppo lontano di fatiche argicole, di stanze con tutte le famiglie assieme, di... servizi igienici "là dietro". Di attività non incentratte attorno alla monocultura, con la monta, la stalla, l'allevamento, e quindi una campagna più variegata. È stato quello il momento giusto per rendersi conto che il progetto "i Barisèi", conclusione del percorso che ha visto la famiglia in oltre cento anni e quattro generazioni attraversare tutte le fasi della viticoltura, dall'autoconsumo alla vendita delle uve.

I quaranta ettari dei Barisèi sono siti nella zona classica della Franciacorta, sull'orlo dell'anfiteatro morenico: nell'accogliente saletta da pranzetto - che pranzetto tutt'altro si rivelò - della Salumeria Giusti a Modena ha visto la luce la Riserva Francesco Battista, un Franciacorta Dosaggio Zero che ha riposato ben 90 mesi sui lieviti e che viene presentato oggi nella sua prima eidzione. Assieme a questa Riserva, dedicata al padre ed allo zio di Gian Mario, primi artefici della svolata aziendale, una batteria con altre tre etichette della Casa di Adro.

Sempiterre, una Cuvèe Brut di Chardonnay con un saldo di Pinot Nero dalla presa profonda e gerosa, grasso al sorso e pieno al finale, con un bel corredo aromatico e una certa spinta agrumata. Rosè, un Brut di Pinot Nero al 100%, in parte criomacerato, millesimato e dal lungo riposo sui lieviti: palesa un colore fascinoso, e profumi ben inquadrati. Al sorso è diretto, quasi asciutto nell'epressione, elettrico nel finale.

La vera sorpresa giunge con la Cuvèe millesimata di Mariadri, un affettuoso riferimento al territorio: dall'attacco tridimensionale del cesto di frutti ben maturi fino al complesso sorso, elegante nella bolla e nel finale in cui compaiono riconoscimenti di semi tostati. Di certo il più gastronomico dei calici di batteria.

Ma ecco la Riserva 2011: due parti di Chardonnay e una parte di Pinot Nero, per finezza nei profumi, delicatezza negli aromi, compostezza nel sorso, evocativo e a tratti melodrammatico, quasi una sonata di piccola orchestra da camera. Bicchiere adulto e di grande personalità, senza essere stentoreo nella chiusura. Il garbo è il suo tratto.

Tutto questo mentre Matteo Morandi faceva sfoggio di piatti di schietta impronta territoriale ma assai poco genuflessi alla mitologia della ricetta tradizionale: gnocco fritto, garganelli al ragà d'anatra, strepitosi. Il maialino, morbido a sfarsi, con un didattico purè, la crostata. Me ne vado con un profondoi incremento di ricchezza in sensazioni e in felicità.